I mercati emergenti stanno avendo parecchia attenzione in queste settimane, in particolare Turchia ed Argentina.

Questi  mercati  sono considerate una asset class a tutti gli effetti; malgrado la forte volatilità che li caratterizza, essi possono trovare spazio in un portfolio ben diversificato, non essendo in particolare perfettamente correlati con i mercati azionari dei paesi più sviluppati.

Per l’appunto, questo 2018 presenta parecchia “decorrelazione” fra ad esempio l’indice americano S&P 500 e l’indice che traccia i mercati emergenti.

Infatti, da inizio anno come noto,  gli Stati Uniti stanno avendo una buona resa borsistica ed hanno prodotto un guadagno di oltre 10% se consideriamo la performance complessiva in Euro , viceversa gli emergenti hanno performato decisamente male con una perdita , sempre in Euro,  di -10% nel corso del 2018.

Se poi consideriamo il massimo relativo raggiunto ad esempio da un ETF Emerging Market ad inizio  2018, e lo confrontiamo con il prezzo di pochi giorni fa, possiamo tecnicamente dire che gli emergenti sono entrati in “bear market”, ovvero siamo in presenza di un ripiegamento o drawdown del 20%.

Quindi sono da escludere i mercati emergenti ? Non necessariamente, ed anzi quelle attuali potrebbero essere delle fasi favorevoli di accumulo per coloro che abbiano impostato un PAC di lungo periodo, ed abbiano all’interno del loro portfolio una quota di azionario emergenti.

Premesso che ci potrebbero essere delle ulteriori fasi di calo per questi mercati  , tuttavia  guardando ad alcuni dati storici , la statistica ci dice che tipicamente ma non sempre ( i rendimenti passati non sono garanzia per i rendimenti futuri), dopo cali di oltre il 20% avuti dagli indici azionari che replicano i  mercati emergenti , abbiamo avuto il più delle volte rendimenti positivi a distanza di 1 , 3 e 5 anni.

La seguente tabella mostra infatti cosa è accaduto in fasi simili nei 2 decenni scorsi ( ovvero a fronte di un calo temporaneo del 20% si riportano i rendimenti cumulativi che si sono avuti dopo 1, 3 e 5 anni , fonte Ben Carlson : http://awealthofcommonsense.com/2018/08/buying-emerging-markets-after-a-disaster)

Vediamo come ad eccezione del periodo Novembre 1997 – Novembre 2002, in tutti gli altri casi , dopo un -20% gli emergenti hanno portato a casa rendimenti positivi ed a doppia cifra nei 5 anni susseguenti.

Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro ma possiamo asserire che una quota di emergenti possa avere senso in una asset allocation strategica di lungo termine e ben diversificata , presentando questa asset class una certa decorrelazione con i mercati sviluppati.

I mercati azionari dei paesi sviluppati possono si avere un grosso peso all’interno di un portfolio azionario mondiale, ma non dovrebbero dunque essere gli unici ad essere considerati , soprattutto per poter intercettare quelle aree del mondo ( ad esempio la Cina) dalla quale ci si aspetta un grosso contributo per la crescita globale.

Non sappiamo quale area del mondo avrà la meglio nei prossimi anni/decenni, allora perché privarsene a priori? Poi, ognuno di noi in base al proprio profilo di rischio potrà considerare un peso più o meno accentuato.

Ricordiamo infine come gli stessi Stati Uniti d’America sono stati anche loro “un paese emergente” prima di diventare la prima potenza al mondo.

 

 

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