Foto di Andreas Riedelmeier da Pixabay

Essere o non essere, questo è il problema.” William Shakespeare

Uno dei temi molto dibattuti in finanza è quello del ribilanciamento.

Personalmente, sono giunto alla conclusione che, seppur sia una pratica sana e consigliata, non esiste un’opinione comune a riguardo, tanto meno sull’eventuale frequenza di esecuzione.

Ribilanciare vuol dire vendere delle quote di asset (ad esempio azioni), che sono salite nel tempo, e ripristinare il proprio mix d’investimenti comprando altre quote di asset (ad esempio obbligazioni).

Ho trovato in rete una buona sintesi fatta da Cullen Roche autore del libro “Pragmatic Capitalism”, che conclude dicendo che il ribilanciamento fornisce uno strumento per il controllo del rischio, ma non garantisce necessariamente un extra-rendimento in valore nominale nel lungo termine.

Il buon Cullen prende come riferimento il periodo 1940-2014 e mostra come un portafoglio senza ribilanciamento abbia performato meglio rispetto ad uno che è stato ribilanciato ogni anno; questo può risultare intuitivo dal momento che, in generale, le azioni a lungo termine premiano quasi sempre il rischio assunto.

https://www.pragcap.com/rebalancing-bonus-work/

Dunque, anche per il ribilanciamento, come sempre la scelta è personale e dipende da ognuno di voi e dal periodo a disposizione per il proprio investimento.

Se vogliamo rendimenti superiori e siamo disposti ad aspettare decenni, allora è più probabile che non convenga ribilanciare; viceversa , se il nostro obiettivo è limitare le perdite nelle fasi di calo dei mercati ad una certa soglia, il ribilanciamento ci consente di svolgere questo compito e, inoltre, potrebbe anche garantire un extra-rendimento al portafoglio.

A voi la scelta per questo dilemma!

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